AMARO MIO
mostra collettiva da un'idea di Edoardo Schiazza
La mostra nasce da un progetto nato al Caffè Rubik di Bologna e dal progetto AMAROTECA creato dal proprietario Edoardo Schiazza.
Il bancone del bar è diventato il set fotografico per raccontare attraverso una foto scattata ogni volta da un fotografo diverso, un amaro.
La mostra comprende 38 fotografie di 38 fotografi con 38 modelli per 38 amari e 38 storie. Noi abbiamo scelto di interpretare “fisicamente” 8 di queste foto/storie/modelli/amari e di avere in coro tutte le altre.
Per raccontarvi la mostra AMARO MIO non troviamo modo migliore che riportare per intero l’introduzione alla mostra scritta da Filippo Dionisi, autore anche di tutte le storie ambientate nelle foto.
AMARO MIO: una storia (quasi) vera
Un uomo con i baffi di Tom Selleck ai tempi di Magnum P.I. e il profilo curvilineo di Alfred Hitchcock entra in un ristorante stellato, di quelli che ti servono una foglia di salvia e te la fanno pagare 400 euro, con possibilità di rateazione, previa fideiussione bancaria. Si siede e gli portano un menu e una carta dei vini che, se gliela metti di fianco, la Recherche ti sembra un volantino di Mediaworld. Li consulta aiutandosi col vocabolario che si è portato da casa e ordina un antipasto, un primo, un secondo e il dolce, affidandosi al sommelier per la scelta di una bottiglia di classe che faccia esultare il palato come Tardelli nel 1982. Alla fine, dopo che si è aristocraticamente pulito le labbra col tovagliolo di seta, pensano di fargli cosa gradita offrendogli un amaro, a scelta tra i due che hanno in repertorio
Ecco, a questo punto, l’uomo si indigna e dice “Ma come? Solo due amari?”
Il maître impallidisce e corre in cucina tutto sudato. “Quanti amari abbiamo?”, chiede.
“Due”, risponde lo chef distrattamente, cercando di mantenere la concentrazione necessaria per sintetizzare l’aroma del tartufo su una rimembranza di formaggino Tigre al rabarbaro.
“Solo due?”, ribatte il maître visibilmente scosso, con un tono da melodramma napoletano.
Tutti, anche il lavapiatti bengalese, si voltano. In quel momento, realizzano che, a fronte delle centinaia di pagine della carta dei vini, hanno davvero solo due amari. E nemmeno troppo ricercati. Il che è imperdonabile, se si considera quanti ce ne siano in commercio.
Il maître si sventola col tovagliolo e torna dall’uomo per comunicargli che effettivamente hanno solo due amari.
Lui si alza, guarda l’orizzonte con l’aura di un Leopardi particolarmente ispirato e decide che, da quel momento in poi, la sua unica ragione di vita sarà quella di rendere giustizia agli amari. Andrà alla ricerca dei marchi più oscuri, organizzerà delle degustazioni, coinvolgerà – per diamine, anche con la forza, se necessario – coinvolgerà, insomma, fotografi e modelli o modelle perché essi producano scatti d’autore dei suddetti amari e si impegnerà a trovare qualcuno che, a partire da questi scatti, scriva delle storie come la sua, cioè quella di un visionario al quale è stata negata una dignitosa scelta di amari e che ha, per questo motivo, deciso di lanciarsi nell’impresa di vendicare gli amari stessi. In tutto questo, non pago, fosse anche l’ultima cosa che fa, metterà in piedi una mostra, perché tutti sappiano. Perché tutti si rendano conto di quale ingiustizia un paese come questo, che si vanta della propria tradizione enogastronomica, sta perpetrando ai danni degli amari. “La chiamerò AMARO MIO!”, urla, al culmine del trasporto. Un cliente si alza in piedi e applaude ma la moglie lo rimette a sedere, tirandolo per un braccio.
Il maître guarda l’uomo dal basso verso l’alto, perché quel mix tra Tom Selleck e Alfred Hitcock, nel frattempo, è salito sopra il tavolo. E tutto quello che ha pensato, in realtà, lo ha detto a voce alta. Nella sala c’è un silenzio totale. È a quel punto che gli presentano il conto e lui sviene.
FINE
Senape vivaio urbano – Bologna
testi di Filippo Dionisi
Realizzazione allestimento: Pialla & Scalpello con Martina Tonello
Con la collaborazione di Enrica Dei Rossi e Rosanna Lama